A gennaio 2018 la Corte d’Appello di Roma, ribaltando una delle nostre sentenze di vittoria, emesse nel 2016 dal Tribunale di Roma, ha dichiarato che bene fa Poste Italiane a non rimborsare al cointestatario i buoni “caduti in successione”, nonostante esista la clausola di p.f.r., se non in presenza della dichiarazione di successione del defunto e di tutti gli eredi del defunto.
Nel video caricato sul nostro canale youtube(https://www.youtube.com/watch?v=rJ2pt5vKC08 ) vi abbiamo spiegato la prima ragione per cui tale sentenza sia clamorosamente sbagliata e rimandato a questo ed ai successivi POST che pubblicheremo, per apprendere le altre 3.
Ma procediamo.
Nella suddetta sentenza, la Corte romana, dopo aver analizzato quale sia la normativa applicabile alla fattispecie, è giunta alla conclusione che ai buoni acquistati, nel caso di specie, tra il 1982 ed il 1986, si applichi sia la disciplina del D.P.R. n. 156/1973, sia quella del D.P.R. 256/1989 ed ha quindi condiviso la tesi della decadenza, in caso di morte, della validità del patto iniziale tra i cointestatari (concordato al momento dell’acquisto e riportato sui buoni) di ottenere il rimborso a vista dell’intero valore dei buoni senza la simultanea e congiunta quietanza da parte degli altri intestatari. E questo, in forza dell’art. 187 del D.P.R. 256/89.
Ebbene, una tale statuizione appare assurda in considerazione (tra le altre cose) che la Corte di Cassazione, nel 2007 a S.U., ha chiaramente stabilito che il vincolo contrattuale tra Poste ed il sottoscrittore dei buoni si forma sulla base dei dati risultanti, di volta in volta, sulla cartula dei titoli.
E allora, se è pacifico che quanto riportato sui buoni (fino al 2000) costituisce il patrimonio informativo in base al quale chi ha accettato di acquistare i buoni si è determinato a fare l’investimento, a nostro parere la Corte d’appello di Roma non poteva non considerare che:
– negli anni in cui sono stati sottoscritti i buoni oggetto di causa, vigeva solo il D.P.R. 156/73 che prevede, senza ombra di dubbio e senza alcuna limitazione, il pagamento a vista degli stessi;
– che il D.P.R. 256/89, con il presunto articolo che prevederebbe il venir meno della scelta volontaria e consapevole dei cointestatari (quella cioè di chiedere il rimborso in piena autonomia l’un dall’altro), non era stato ancora emanato;
– che, di conseguenza, l’assunto del venir meno della clausola di pari facoltà di rimborso (di cui non vi è traccia alcuna sui buoni) non può essere stato minimamente prospettato, ai sottoscrittori dei titoli, dagli impiegati postali.
Ne consegue che la tesi condivisa dal Consigliere relatore è errata in quanto si pone in conflitto sia con la natura contrattuale (e le regole che ne derivano) dei buoni, per come riconosciuta dalla Suprema Corte di Cassazione, sia con lo stesso D.P.R. 156/73 che è normativa primaria, e dunque di grado più elevato rispetto a quella applicata.
P.S.: non è infatti un caso che quanto da noi sostenuto in questo articolo, trovi conferma nelle sentenze favorevoli ottenute dal nostro Studio Legale davanti ai Tribunali di Cosenza (in più sentenze), di Roma (in più sentenze); di Pisa (sentenza del 2016); di Trani (sentenza del 2018); di Bologna (sentenza del 2018); di Lucca (in più sentenze del 2018); di Santa Maria Capua Vetere (sentenza del 2018); di Busto Arsizio (sentenza 2018); di Lecco (sentenza di luglio 2018); davanti alla Corte di Appello di Torino (sentenza luglio 2017) ed al Tribunale di Cosenza in grado di appello (sentenza luglio 2017).
Per la lettura degli altri 3 motivi, leggi il post. n. 27