La sentenza del 29 settembre 2015 pubblicata dal Giudice di Pace di Savona ha destato molto clamore in rete, alimentando buone speranze nella comunità dei possessori di buoni investiti dalla diminuzione dei saggi di interesse. Si è infatti letto, da più parti, che questa sentenza sarebbe in grado di segnare una “svolta” nell’orientamento fino a questo momento sfavorevole. Da Avvocati difensori di numerosi risparmiatori, lieti della notizia (se, infatti, la decisione venisse confermata in appello e passasse in giudicato, ne gioveremmo tutti), abbiamo esaminato la sentenza de qua e siamo giunte alle conclusioni di cui appresso.
Premettiamo che l’avvocato difensore di Poste, davanti il giudice adito, preliminarmente ha sollevato una serie (improbabile) di eccezioni pregiudizievoli di rito (per intenderci, “difetti di forma del giudizio” che attendono ai requisiti necessari della domanda e che sono indispensabili per la continuazione del processo) e nel merito, in via subordinata, una serie di mere argomentazioni difensive, dirette, genericamente, a contestare la fondatezza della pretesa del risparmiatore, onde ottenere la dichiarazione di nullità del decreto ingiuntivo, in quanto “infondato, ingiusto ed illegittimo”.
Ebbene, le eccezioni di rito avanzate dall’Avvocato della società, sono state facilmente (e giustamente) superate dal Giudice di Pace che, sui punti, ha adeguatamente motivato in sentenza. Del resto, diciamolo francamente, non poteva essere diversamente, stante la labilità e la inconsistenza delle stesse. Solo a Poste Italiane poteva, infatti, venire in mente di contestare, nell’ordine:
a) che il Giudice competente a decidere sul rimborso parziale sarebbe il Giudice Amministrativo (Tar, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Commissioni tributarie), il quale, normalmente, tutela situazioni giuridiche nei confronti della Pubblica Amministrazione (mentre sappiamo bene che Poste Italiane è una società per azioni e, dunque, una persona giuridica privata);
b) che la convenuta società non avrebbe la legittimazione passiva a stare in giudizio, cioè l’effettiva titolarità a subire quel dato giudizio, per quella data ragione (es: Tizio e Caio sottoscrivono un contratto e quest’ultimo si rende inadempiente. Bene, Tizio non potrà convenire in giudizio Sempronio che, non essendo parte del contratto, non avrebbe la legittimazione passiva a stare in quel giudizio). Mentre è acclarato che i BFP siano dei contratti, sottoscritti tra Poste ed il risparmiatore di turno (per cui se in questo contratto, Poste si rende inadempiente, chi altri ne dovrebbe rispondere?!);
c) che il procedimento sarebbe viziato perché non evocati in giudizio tutti i litisconsorti necessari e cioè la Cassa Depositi e Prestiti e/o il Ministero dell’ Economia e Finanze. Il Giudice ha escluso la legittimità di questi soggetti richiamando una serie di sentenze e desumendo inequivocabilmente quella di Poste da una serie di elementi, non da ultimo quello che tutti i suoi uffici postali sono indicati, sugli stessi titoli, come “soggetti debitori/pagatori” ai quali i titolari dei buoni devono rivolgersi per ottenere il pagamento di quanto dovuto;
d) che la domanda sarebbe inammissibile per difetto di integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri intestatari del buono. Eccezione questa rigettata in quanto sul buono è risultata apposta la clausola di pari facoltà di rimborso che riconosce il diritto disgiunto, a ciascun intestatario, di chiedere ed ottenere il rimborso a vista, e per intero, del buono.
Insomma, è ormai assodato (senza far ricorso necessariamente alla sentenza della Cassazione n. 13979/07) che tra i sottoscrittori dei buoni e Poste italiane si instauri un rapporto di natura contrattuale e privatistica che fa sì che alla fattispecie in esame si applichino le norme di diritto privato. Ed inoltre, come osservato dal dott. Grammatico, dal momento che è Poste a consegnare i BFP al risparmiatore; ad acquisire il prezzo pagato per l’acquisto del titolo e ad occuparsi di tutte le operazioni, tra le quali il rimborso, la stessa, non può non essere il soggetto tenuto a rispondere delle presunte manchevolezze.
In definitiva, inconferenti sono apparse da subito tutte le suddette eccezioni pregiudiziali di rito, il cui rigetto è stato ampiamente argomentato in ben 10 delle 42 pagine della sentenza di primo grado alla quale rimandiamo.
Passando poi all’asserita (da parte di Poste) insussistenza delle condizioni di ammissibilità del decreto ex art. 633, e alle altre argomentazioni di merito, non avendo modo di leggere gli atti difensivi dell’Avvocato di Poste, ci siamo attenute alle ragioni per le quali, in sentenza, il Giudice di Pace ha ritenuto infondate le difese della convenuta.
E a tale riguardo, rileviamo che tra le osservazioni molto convincenti del dott. Grammatico, che assumono importanza per tutti gli interessati, vi è senz’altro la conclusione secondo cui la quietanza di pagamento sottoscritta dal risparmiatore al momento dell’incasso (parziale) dei buoni è, da un lato, prova dell’esistenza del titolo allegato in giudizio solo in copia (in quanto l’originale, ricordiamo, viene ritirato dall’Ufficio postale); dall’altro, non costituisce riconoscimento di non avere più nulla a pretendere, ed è quindi priva di quel “valore liberatorio” attribuitole da Poste.
Al tempo stesso osserviamo però che non altrettanto convincente appare, invece, il Giudice di Savona quando supera l’eccezione di Poste – secondo cui nella fattispecie all’esame debbano trovare applicazione l’art. 173 del D.P.R. 156/73 e l’art. 6 del D.M. n. 148/86 – semplicemente rimandando, per relationem, ai profili di incostituzionalità sollevati dal Tribunale di Napoli nel 1999 e nel 2002 (e non accolti dalla Corte Costituzional, seppur per questioni di forma) in ordine all’art. 173, nella parte in cui questo consente l’estensione dell’intervenuta variazione alle serie di buoni precedenti senza che vi sia previsione o sottoscrizione per accettazione e malgrado l’intervenuta variazione non sia stata comunicata al domicilio del titolare dei buoni per consentirgli, tempestivamente, l’esercizio del diritto di recesso.
Per il dott. Grammatico dunque, e prima di lui per il giudice napoletano, l’operato di Poste non si discosterebbe da quello relativo agli analoghi servizi offerti dal sistema bancario dove è, per l’appunto, previsto sia che la variazione in senso sfavorevole al cliente del tasso di interesse debba essere espressamente indicata e dunque approvata con clausola specifica; sia che debba essere comunicata al domicilio degli stessi. E da qui fa quindi derivare la disparità di trattamento tra i diversi risparmiatori, ritenuta significativa ai sensi dell’art. 3 della Costituzione. Tuttavia, il richiamo alle disposizioni degli artt. 117 e 118 T.U.B. ed ai precetti in esse contenute, appare flebile giacché (come è stato rilevato in altre sedi giudiziarie) sia al momento dell’emissione dei buoni in questione, sia al momento dell’emanazione del D.M. dell’86 (con il quale è stato variato il saggio di redditività dei buoni già in circolazione) il D.Lgs n. 385/93 (cioè il testo unico bancario) non era stato ancora emanato. Nè è legittimo ipotizzarne l’efficacia retroattiva.
Ed ancora, tutt’altro che ineccepibile, si rivela il ragionamento giuridico del Giudice di Pace di Savona, nella parte in cui evidenzia che il D.P.R. 156/73 e il D.M. dell’86 hanno disposto la variazione di interessi per i buoni delle serie precedenti, mentre è noto che “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. In virtù di tanto, a detta del giudice adito, ci sarebbe una patente violazione del principio di irretroattività della legge ai sensi dell’art. 11 delle preleggi. Sul punto, per quanto in teoria si concordi, rimane però il fatto – non superato dal giudice savonese – che il principio di irretroattività introdotto con l’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, non ha rango costituzionale, sicché può essere derogato da norme aventi pari grado.
Infine la sentenza all’esame è carente anche in ordine alla presunta “insufficienza ai fini informativi della pubblicazione del D.M. sulla Gazzetta Ufficiale”, in quanto il giudice argomenta la sua contrarietà con motivazioni che, seppur socialmente valide, non rivestono però crisma giuridico.